Sito del Forum della Lingua Siciliana

Forum della Lingua Siciliana

Provincia di Enna

 
 

di Giuseppe La Delfa

 

La tradizione del Venerdi Santo a ENNA

 

La festa del venerdì Santo a Enna risale alla notte dei tempi. Già nel secolo XV° si riscontra  nella cittadina di Proserpina una devozione per il Crocifisso e per la Madre Addolorata. Lo stile della processione rispetta ancora oggi  il rito identico a quello Catalano della Spagna dei secoli scorsi. Circa 2500 fedeli riuniti in congregazioni religiose vestiti di un saio di colore bianco e di un mantello (mozzetto) di diverso colore e in testa un cappuccio, sfilano per le vie cittadine a partire dal pomeriggio fino alle 21 di sera percorrendo l'antica città da un estremo altro dei due monti che insistono nella città di Euno.Durante il  percorso una folla silenziosa accompagna in preghiera  Gesù morto e dietro la sua mamma celeste fino alla cattedrale, tra le nenie dei cantori.

 

Il venerdì Santo di Assoro – " Una notte all'insegna della fede e alla scoperta dell'amore divino"

 
Una delle migliori feste religiose del Venerdì Santo in Sicilia è certamente quella di Assoro. Paese dell'ennese a 905 metri di altezza dal livello del mare. La cittadina di origine sicula fu tanto onorata e apprezzata  anche da Cicerone nelle Verrine (processo contro Verre) e in quella occasione il grande avvocato romano definì gli assorini "viri fortis et fedeli alla patrie sue".
La processione del Cristo Crocefisso è portato a spalla dalla Congregazione dei Nudi a piedi scalzi. I portatori sono 64 e il fercolo ha il nome di “u Munti”. La cerimonia dura dalle 21 alle 4 del mattino. Prima della processione c’è una cerimonia della congregazione del Crocefisso all’interno della chiesa madre seguita da una  lunga predica effettuata da un predicatore venuto da un'altra città e ad una richiesta di perdono al Signore il popolo risponde "misericordia".
 
La manifestazione religiosa ha inizio nella Chiesa di San Leone, divenuta Matrice del paese (1492) ed elevata al rango di Basilica (21 aprile 1499), è stata dichiarata (1933) Monumento Nazionale per la sua bellezza artistica. È uno dei monumenti più belli della Sicilia, tanto da far dire a un viaggiatore che “per visitarla vale la pena anche un viaggio dall’estero”. Con importanti sculture del 600 attribuiti al Gagini.
 
Sorta nel XII secolo ad opera di Costanza d’Altavilla come Cappella “regia”, ha stile prevalentemente gotico, con stilemi arabi e catalani. Ha forma di croce latina ed è costituita da tre navate con transetto rialzato rispetto al pavimento della chiesa; ad un livello ancora superiore si trovano un’abside centrale e due laterali. Ha tetto in legno con capriate.
 
La Basilica ha preziose opere d’arte, tra le quali sono da menzionare: - *Crocifisso archeropito in legno e impasto, attribuito ad Antonello Gagini; intorno a quest’opera così scriveva il Rev. Giovanni Gnolfo: “Perfezione anatomica e bellezza fisica ne sono le note predominanti. Ben marcate le curve sotto ascellari e l’osteologia della cassa toracica con visibilissimo disfacimento del pannicolo adiposo subcutaneo: canone fondamentale dell’arte rinascimentale”.
- * grande icona polittica, acquasantiera e fonte battesimale anch’essi scolpiti dal medesimo artista - * croce argentea con fondo a smalto bleu di Vincenzo Archifel - * messale gallicano usato in Sicilia prima del Concilio di Trento - * quattro artistici sarcofaghi dei conti Valguarnera - * portone in bronzo artisticamente effigiato - * cripta paleocristiana, già tempio pagano.

 

18 Giugno 2009

 

 

di Giovanni Piazza

Maledetti Savoia

 

L’esigenza di verità non sia mai tentativo di mettere in discussione l’unità del paese.E’ però necessario, per meglio comprendere il presente, conoscere quel passato che lo ha generato. Affinchè quella unità possa pienamente e coscientemente arricchirsi anche della consapevolezza dei propri errori. MALEDETTI SAVOIA? Risorgimento. Gloriose pagine di splendide figure patriottiche o sporca guerra di conquista?  Certamente un revisionismo dei vinti non avrebbe motivo di esistere, se non considerando falsate le annessioni plebiscitarie ufficiali con le quali questi ultimi si consegnarono ai vincitori. Mentre la possibilità di accesso a carteggi, inaccessibili per decenni, lascia intravedere abbastanza chiaramente la preesistente volontà di occupare il ricco sud con la sola legittimazione della forza.  Volontà, questa, di un piccolo e retrogrado stato, indebitato da una miriade di guerre regolarmente perdute, e messa in atto da personaggi “padri della patria”, quali Vittorio Emanuele, Cavour, Mazzini e Garibaldi, ognuno dei quali aveva in pessima considerazione gli altri. E se risponde certamente a verità che il Borbone, come peraltro tutti i regni del tempo, non fu per nulla liberale e tenero con i propri sudditi, risulta altrettanto evidente quanto quella illiberalità ebbe modo di dare il meglio di sè, quando si espresse in savoiardo.Perchè la piemontesizzazione a cui fu costretto il sud, imponendo legislazioni e moneta proprie ed abolendo usi e costumi delle regioni annesse, unificando l’enorme debito di stato a quello praticamente inesistente delle Due Sicilie, innalzando a dismisura il prelievo fiscale (cosicchè il sud pagò di tasca propria la propria liberazione), predando e trasferendo al nord ogni potenzialità che risultò determinante per la nascita di quel polo industriale (le navi dei Florio, trasferite a Genova, costituirono il nucleo principale della Navigazione Generale Italiana, mentre le realtà dello stabilimento di Pietrarsa servirono a far decollare l’Ansaldo), predando il Banco di Sicilia ed il Banco di Napoli delle molto consistenti riserve, confiscando le terre ed i tesori della chiesa ed usando le rendite derivanti dalla loro vendita ad esclusivo vantaggio del nord, praticamente usando delle Due Sicilie allo stesso modo in cui l’usurpatore austriaco aveva usato dell’Italia, creò in pochissimi anni quell’assunto del “briganti o migranti” mai esistito in precedenza. Assunto, questo, mostratosi triste preludio alla esplosione della questione meridionale che, tuttora irrisolta, continua a deflagrare tra le sventurate avversità del sud. Certo è, peraltro, che se il nostro essere di parte, la parte dei vinti, possa non concedere immediata ed incondizionata credibilità ad una tale ed interessata percezione, anche l’assegnare la patente di neutralità agli storici dei vincitori, che hanno fatto del risorgimento un romanzetto strappalacrime intriso di inenarrabili eroismi e di disinteressati sacrifici, presenti analoghe difficoltà.
Storici che hanno avuto il compiacente servilismo di tacere sulle stragi e sulle deportazioni e che per oltre un secolo hanno nascosto, sotto l’infamante tappetino del brigantaggio, persino il sangue innocente. Ma troppo evidenti sono oramai gli indizi che conducono ad una seria revisione di quella romanzata epopea risorgimentale. E troppo numerosi, i testi che da tempo si dissociano dall’immobilismo sacrale dell’ufficialità. E se quei testi e quegli indizi mostrano già una devastante e devastata realtà, è certo che ancor più devastante sarebbe il liquidarli semplicemente come stupidi sentimenti di rivalsa.  Emblematico, e recentemente venuto alla luce, il carteggio di una lunga e sconcertante trattativa del governo piemontese che chiede a più soggetti di poter disporre di un’isola sulla quale confinare i prigionieri duesiciliani. Tentativo, questo, che si protrasse almeno fino al 1872 (dodici anni dopo l’annessione), e che apre un ulteriore squarcio sul periodo di terrore e su stragi e deportazioni perpetrate contro intere città. Ponendo l’inquietante interrogativo di quanto numerosi ancora fossero i detenuti nei lager sabaudi (terribile e temutissimo, quello di Fenestrelle).“Briganti” braccati solo perchè fedeli ad un giuramento, o indipendentisti o, semplicemente, picciotti renitenti ad una coscrizione estranea al loro costume, che privava le famiglie delle migliori braccia e le condannava a miseria e disperazione.  “Briganti”, talmente numerosi nonostante le continue eliminazioni in calce viva causate da stenti, privazioni, torture e fucilazioni, da rendere necessario il reperimento di un confino che potesse contenerli e totalmente isolarli. “Briganti”, a cui li relega il ruolo di vinti, in quella storia scritta dai vincitori che non si preoccupa nemmeno di dover giustificare le gesta “eroiche” di quei mille, che lo stesso Garibaldi, in parlamento a Torino il 5 dicembre 1861, definisce: «tutti generalmente di origine pessima e per lo più ladra; e tranne poche eccezioni con radici genealogiche nel letamaio della violenza e del delitto». Emblematico e paradossale, anche in questa desolante evidenza, come la “gloriosa epopea risorgimentale” abbia la criminale spudoratezza di far proseliti “nel letamaio della violenza e del delitto”, e che alla fine, sdegnosamente, non esiti a smentirlo. Ecco quindi che la miriade di atti in possesso dei vari ministeri, gli archivi dei Savoia, se ancora esistenti, quelli dei Borbone e di mezza Italia e le tante memorie autobiografiche permetterebbero certamente di fare maggiore chiarezza su uno dei periodi più tristi della storia del sud e di far luce sulle accuse di piraterìa e schiavismo rivolte al Garibaldi. Quel Garibaldi difensore e paladino del popolo, ma accusato di stragi e proprietario di gran parte di Caprera e beneficiario, per il figlio Menotti, di ingenti somme mai restituite al Banco di Napoli. Chiarezza sulle accuse di pavidità al Mazzini, traditore della causa repubblicana.
Sulla inettitudine ed ingordigia dell’intera casa Savoia. Sulla spregiudicatezza criminale di Cavour e di Crispi e sul ruolo determinante della massoneria internazionale. Come pure, sulla incredibile credulità di tanti patrioti.
Uno per tutti il Pisacane, partito come Garibaldi per una spedizione impossibile perchè convinto ad arte che il sud si fosse già sollevato, ma che, molto ingloriosamente, venne massacrato dagli stessi contadini che voleva liberare.
Ben venga, dunque, qualsiasi contributo che serva a ristabilire un briciolo di verità storica, a ridare una postuma dignità a quanti briganti non furono, semmai non lo furono, ed a quanti, in fede, combatterono e resistettero senza l’aiuto di una quinta armata che li conducesse alla vittoria e garantisse loro la qualifica di partigiani. Se appare ormai certo che i savoia organizzarono annessioni plebiscitarie universalmente riconosciute di nessun valore, è peraltro altrettanto certo che il sud non userà lo stesso iniquo metodo, regale solo nella empia efferatezza. Ma se ciò, come da più parti traspare, dovesse continuare a rivelarsi, in tutta la sua mostruosità, come un immenso genocidio di massa dei duesiciliani indiani d’Italia, sarà doveroso e comprensibile, allora, che dalle nostre valli torni a levarsi il grido, solo, unico ed indivisibile:  il grido di MALEDETTI SAVOIA! Un siciliano
(Giovanni Piazza)
Una via dedicata ai bersaglieri, a Genova, città che reagì al progetto con la nascita di un movimento popolare spontaneo, ricordando come le truppe sabaude del La Marmora, ed in special modo i bersaglieri, per reprimere la rivolta antisavoia del 1849, annoneggiassero prima e saccheggiassero poi, perché "non merita riguardo una città di ribelli".
Vittorio Emanuele ringraziò il generale con una lettera, in francese, in cui definisce gli insorti genovesi "una vile e infetta razza di canaglie".

 

 



Appunti e contrappunti
I
Comu a Genova, "Via dei Bersaglieri",
dopu ca la sfascianu già ddi stissi.
Ciàvi centanni ecchiù ma parsi aieri
ca ddu gran sorti di gran re ci dissi:
"Fofò, soggioga a sacco e rappresaglie
la vile e infetta razza di canaglie."
II
Ed il prode La Marmora chi fici?
Prima si li va pigghia a cannunati
poi li fa catafùttiri a pirnici
de bersaglieri e l'autri so' surdati.
Ora però, pi sbergiu e fantasìa
ci vonu dari tìtulu a la via.
III
Pirchì, nga comu ni finì, cca ssutta?
Piazze e vie Garibbaldi a tinchitè.
Si, l'eroe dei due mondi, a dirla tutta
ci fussi di sfunnari l'arritrè
facennu sulu appuntu e contrappuntu.
Comu chi ddici! Comu chi ti cuntu!
IV
Cumpà, quello era un latro di cavaddi
che faceva il pirata bucaniero,
di pilu lungarinu a supraspaddi
pirchì n'oricchia ci mancava vero,
no pi mancanza, ma tagghiata e vvìa
pirchì campava di piratarìa.
V
E a la ranni casata savuiarda
sempri in bulletta e dèbbiti 'nsubbissu
astura s'alliccàssiru la sarda,
pirchì campannu cu ddu chiovu fissu
di sempiterna guerra di cunquista
ci sirviva qualcunu ntrallazzista
VI
pi inchìrisi li cassi strafunnati
e allura cu l'aiutu di li ngrisi,
di du navi e di milli sgangarati,
senza pruvocazioni e senza offisi
e senza mancu dichiarari guerra
pigghiò l'assaltu di sta nostra terra.
VII
E arriparati arrera a li Britanni,
ca sempri lingua ngrisi è Ddiu di guai,
sbarcaru senza botta e senza danni
accuminciannu l'òpira chi sai
e stabilennu sèmplici e pricisi
ca l'Italia la fìciru li ngrisi.
VIII
E milli e milli piastri ci custò
e s'accattò ddi stupiti ufficiali
burbuni e tradituri ca di so'
ci pèrsiru la facci tali e quali
ca ognunu si stuiavanu li mussa
non cuntrastannu la camisa russa,
IX
mentri ddu sicilianu sinciruni,
ca ci parsi d'aiutu spassiunatu,
assicutannu fora a lu Burbuni
prestu scarì la virità di statu
ca ammenzu a stragi di carnificina
iva avanzannu a la garibaldina.
X
E Ciccu prutistò, cu ddu cugginu
piemontisavoiardu, ma Camiddu
risposi a tuono e di pinzeru finu
dichiarànnusi fora e liddu liddu
dissi ca cu la garibbalda truppa
nun ci spartiva chiummu emmancu stuppa.
XI
Ma intantu già l'armata piemuntina
pigghiava postu, mentri a menzu via
iva canciannu l'aria già cchiù fina
e lu culuri di la tirannìa,
scura e nniura di cori e chianu chianu
già russa di lu sangu sicilianu.
XII
A Garibbaldi poi si lu iucanu
ca essennu persunaggiu incontrollàbbili
sùbbitu ci svutò ripubblicanu
mentri pi governari in pianta stàbbili
al savoiardo pòrsiru vantaggi
cullabborazionisti e licchinaggi.
XIII
Pirchì stu generali in virità
nun ci assa mai pinzatu a la cunquista
e l'impresa ca si dimostrerà
vincenti ma ridicula a la vista
fu attenta e priparata a tavulinu
di ddu Camiddu ciriveddu finu.
XIV
Peppi, - ci dissi - tutto il meridione
ha misu manu all'arma e cu valìa
ha posto in fuga il pèrfido borbone.
Tu basta ca t'affacci accomusìa
e ti pigghi lu meritu e la gloria
svutannu al savoiardo la vittoria.
XV
E comu lu criaturi Pisacanu
ddu babbu ci cridì, partennu a razzu,
e chiddu ca nun fu colpu di manu
ma sulu di chiù sutta e d'intrallazzu
fu principiu di sorti disgraziata,
sdisulannu stu regnu a na palata.
XVI
E dannu casa a latri e malfattura
dessi la scusa a dda gran testa fina
d'interveniri cu la manu dura.
Sulu ca poi, camina ca camina,
Garibbaldi pinzava, ma a stu puntu
mi pigghiu Roma eppoi ci lu va cuntu.
XVII
Ma testafina lu capì a na botta
ca disturbannu l'aria papalina
s'assa nfuddatu assaidicchiù la lotta
mittennu in forsi puru la rapina
e senza appagnu e chiàcchiri di fera
lu rimannò di cursa a la Caprera.
XVIII
Ma no p'esigliu o pi cunnanna trista
pirchì menza di l'isula era so'
e si suspetta a ffari lu schiavista
si fici il soldo eppoi si l'accattò,
pirchì la patria è patria e sempri sia,
però la proprietà mancu babbìa.
XIX
E' fatta - fece il savuiardo - e allura
sia fatta l'annessioni pi memoria
pirchì l'impresa di sta truvatura
sia già ligittimata di la storia
e allura vota, sìculu, e perciò
sicciài curaggiu vòtici di no.
XX
E seicentu e sissanta e setti frati
l'èbbiru, stu curaggiu smusuratu
e nonostanti li minacci armati
svutanu e rivutanu di ddu latu
lassannu impiritura la memoria
e pigghiannu l'appuntu cu la gloria.
XXI
L'Italia è unita, il popolo è cu mmìa -
dissi lu savoiardu a l'intrallazzu,
e accuminciò cumpleta la razzìa
e li tisori li cugghiva a mazzu
e arricampannu ogni di chi truvava
mancu l'occhi pi chiànciri lassava.
XXII
Ogni cassadominiu cumunali
ca assupirchiò di poi di li sacchiggi
fu sanu sanu siquistratu e tali
sucatu in nomu di rigali liggi
pirchì la ranni e savuiarda panza
nun canusci musura né suttanza.
XXIII
Ogni chiesa di regula spugghiata
giammentri ogni tirrenu papalinu
fu spussissatu, ed ogni tassa isata
a livellu di furtu e di rapinu
sulu pi smusuratu conquibbussu
a lu grifagnu savuiardu mussu.
XXIV
E la terra prumissa fu la fossa,
e la miseria la liberazioni,
mentri l'eterna sìcula sommossa
puru si frammiscata a lampi e troni
nenti ci potti contra a l'armamenti
ca Cadorna calava i cchiù putenti.
XXV
E carzarati a la furesterìa
a Finistreddi mòrsiru a cafolu,
o briganti o migranti, era la via
senz'autru versu di pigghiari volu
sinnò comu briganti di catina
in sempiternu sutta formalina.
XXVI
Pirchì briganti prima nun cinn'era?
Com'è ca poi ci vinni vucazioni?
E ammenzu a tanti chiàcchiri di fera
n'arresta sulu, a centru di questioni,
cirtizza ca ddu nòrdicu sviluppu
si raddrizzò, cunzànnusi lu tuppu,
XXVII
sulu grazi a lu sangu e li tisori
duisiciliani, e ddu risorgimentu
ca ni chiantanu a forza nta lu cori
cantatu nta li libbra a centu a centu
s'addimustrò, liggennuci la lista,
una misara guerra di cunquista.
XXVIII
Comu a Genova, "via dei bersaglieri",
dopu ca la sfascianu già ddi stissi.
Ma essennu nui meridionali e fieri
d'èssiri tali, pi nun dari bissi
è duvurusa nostra volontà
pritènniri sia fatta verità.


Giovanni Piazza

 

6 Giugno 2009

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Pubblicazione di Giovanni Piazza

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